#Approfondimenti | 16/05/2023

Con gli occhi e il cuore

Gianni Ballabio

Vent’anni fa, il 21 maggio 2003, Ugo Canonica terminava il suo generoso cammino nel tempo. Ricordarlo in questo anniversario significa ritrovare il suo prezioso itinerario educativo nelle scuole (Arosio, Mendrisio, Lugano). Ricordarlo, vuol dire soprattutto rileggere il suo apprezzato contributo di scrittore, in prosa e poesia; in lingua e nel suo familiare dialetto di Bidogno.

Nato nel 1918, è stato collaboratore della Radio della Svizzera italiana, del Corriere del Ticino, della rivista Cenobio. Nel 1995 ha ottenuto il Premio Schiller per la sua opera. Il suo scrivere colpisce per l’intensità del procedere, la semplicità quale autentica vocazione comunicativa, la profonda sensibilità verso persone, eventi e ambienti. Si spiega così il frequente ricorso alla similitudine e alla metafora, mentre sa usare con familiarità lo strumento «lingua», ponendo in sintonia la funzione referenziale con quella emotiva, leggendo così l’ambiente con gli occhi e il cuore. Nel contempo sa dare spazio alla funzione conativa, perché coinvolge fino a una sincera commozione chi percorre le sue pagine.

«Figlio, me ne vado»

Gli esempi al riguardo potrebbero essere molti. Eccone alcuni, cogliendo, come fior da fiore, altrettanti passaggi dei suoi scritti, dove sovente la prospettiva autobiografica è una guida, come ne «La voce del padre», dove ritrova l’esperienza da lui vissuta, ancora ragazzino, della morte del papà. Nel contempo emerge il forte attaccamento alla madre, per esserle di sostegno, quasi avvertendo il timore di perdere anche lei. Questo libro, al quale fanno riferimento le seguenti citazioni, è uscito – curato da Nicola Arigoni che firma pure la prefazione – nel 2015 presso l’editore Dadò, dopo aver conosciuto precedenti pubblicazioni.
«Figlio, me ne vado», queste parole del padre malato risuonano di pagina in pagina, come il soffio di un’eco sofferta, ma luminosa di affetto e nostalgia.
«In quel tempo il dolore entrò in me, si formò come un lungo infinito fiume che doveva accompagnare i miei giorni. Mio padre era malato. Stava nella sua camera e solo un filo di vento gli portava dentro, attraverso la finestra, il profumo della terra» (p. 23).
Un capitolo chiuso dal suono di una campana: «Mi parve che quella campanuccia, così sola là in alto, sotto le stelle, piangesse chiamando per il rosario della sera. Senza saperlo, seguii il filo di quel suono che si spense con un languore docile di pianto» (p. 25). Un rintocco colto come eco di una voce umana di fronte al grande mistero del vivere e del morire che l’autore, a distanza di anni, ritrova nel cuore.