«Pai sant paltò e guant», recita un proverbio milanese, citato da Luigi Santucci nell’apertura del suo «Velocifero», un romanzo così avvincente del quale non si vorrebbe mai arrivare alla fine. Vita talora grama, ma altrettanto dignitosa in quel tirare avanti a testa alta anche nella miseria. «Po durmi chi ga dulur, ma dorma mia un debitur», sentenziava un proverbio, che oggi forse si dovrebbe citare al contrario. Campo e stalla erano quotidiana fatica e se proprio non andava, si faceva fagotto, cercando lontano un pane più generoso.
D’inverno le differenze sociali erano ancora più marcate, anche per il freddo. Per pochi, quelli del beffardo proverbio «patati, vin e legna in mota e lasa che ’l fioca», era già arrivato il riscaldamento centrale, per gli altri c’erano il buon camino e soprattutto la stufa che troneggiava in cucina, chiamata allora «la caa». La stufa era per tutto: per riscaldare, far da mangiare, avere acqua calda, anche per la «büiot» che si metteva nel letto, perché le stanze di sopra (non s’usava dire camera) erano di gelo. Se però vi passava il tubo del camino un po’ di calore veniva risucchiato e faceva bene. Niente lavatrice, ma acqua fredda: della fontana, del vicino torrente o del lavatoio comunale, dove si facevano passare l’intero villaggio e la sua gente, da cima a fondo, nel bene e nel male: «Savún e ciaciar / che sa cunsüma / in scüma, e spariss» (Giuseppe Arrigoni). E quanti geloni per quelle povere mani mai stanche.
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