#Stile libero | 05/12/2021

La graffiante matita dell’Armando

Fu una novità e quella novità si è protratta per 30 anni, ogni giorno, con immutate caratteristiche di freschezza, vivacità di tratto, riconosciuta arguzia. Il tutto condito con pungente sarcasmo.

di Giuseppe Zois

Parlo della vignetta con la quale Armando Boneff fece la sua prima apparizione sul Giornale del Popolo. Una finestra sicuramente interessante, ma anche coraggiosa per il Ticino. In Italia la vignetta era già una presenza più familiare: chiaro che farla in una nazione di 60 milioni di abitanti mette gli autori più al riparo di chi si muove tra uomini e storie del nostro Cantone, dove le reazioni più immediate sono l’allergia, l’irritabilità o in taluni casi anche l’arrabbiatura.

Una dote devono avere – e ce l’hanno – i vignettisti: essere fulminanti. È la satira stessa, di ogni tempo, già dall’antichità, che lo esige. Boneff, cinquemila vignette sul GdP, si è fatto un nome e una fama diventati popolari con la sua matita urticante e poco incline agli sconti. 

Si sa, anche se non lo si ammette, che tutti siamo suscettibili e permalosi e mal sopportiamo d’esser presi di mira. Il compendio di tale atteggiamento, Boneff l’ha espresso con un folgorante aforisma: «Le vignette migliori sono sempre quelle che riguardano gli altri». Ci sono tuttavia anche quelli che – presi di mira – stanno al gioco e fanno buon viso a cattiva sorte (vale pur sempre il detto «parlarne bene o parlarne male non importa, purché se ne parli»). 

La classe più sotto tiro, naturalmente, resta quella dei politici. E qui, accanto a qualche «sdegnato», c’erano diversi che chiedevano a Boneff l’originale della vignetta da incorniciare. Qualcuno ha potuto «arredare» un salotto, altri hanno capitalizzato l’appellativo che l’inventiva boneffiana creava: è il caso, ad esempio, di Giorgio Giudici, sindaco di Lugano per antonomasia, immancabilmente effigiato come Re Giorgio in trono o come Sire in ermellino nella sua corte di Palazzo Civico.
Peccato che questa abitudine mattutina di «caffè, brioche e Boneff» sia venuta a mancare. La colazione è un po’ più «sciatta»; rovescio della medaglia: per qualcuno, più sollevata.

 

Pochi indignati, molti furbacchioni

Armando Boneff, che effetto ti ha fatto ritrovarti editorialista da un giorno all’altro e per 30 anni, ogni giorno, su un quotidiano con la vignetta?
«A dire il vero non mi sono reso conto subito di quanto fosse oneroso l’impegno e delicato riuscire a “far riflettere sorridendo”, soprattutto sul quotidiano della Curia, dal quale la popolazione si aspettava, giustamente, contributi seri e autorevoli. Mi ci volle tutta l’incoscienza della gioventù per lanciarmi senza paracadute, ma ebbi anche la complicità di una direzione vivace e di un vescovo-editore (Eugenio Corecco) dotato di un sorprendente sense of humor».

I lettori come giudicarono l’innovazione?
«Ebbe un insperato successo. Un sondaggio rilevò che i due terzi dei lettori degli allora tre quotidiani ticinesi guardavano regolarmente la mia vignetta sulla prima pagina del GdP».

Le reazioni però, più che dai lettori saranno arrivate dai bersagli della sua graffiante matita...
«Ci furono pochi indignati (che si spinsero fino ad annullare l’abbonamento al Giornale del Popolo), più numerosi i furbacchioni che, dopo un periodo iniziale di tolleranza silenziosa, arrivarono perfino a sollecitarmi. Per qualcuno figurare in una vignetta significava essere ammesso nell’olimpo dei personaggi che contano. In generale le reazioni positive o negative furono inversamente proporzionali alla caratura dei personaggi».

 

Nel Ticino panorama editoriale al crepuscolo

Non sempre però un vignettista può essere in linea con le posizioni del giornale o della testata con cui collabora. Hai trovato tanti paletti sulla sua strada?
«Pur avendo concordato la facoltà del direttore di rifiutare le vignette ritenute inadeguate, in 30 anni ciò è avvenuto pochissime volte (una ventina?). Deduco di essere stato il vignettista ticinese meno censurato dai suoi direttori (Lombardi, Zois, Mésoniat, Zumthor)».

Più di trent’anni di giornalismo significa parecchi cambiamenti climatici dentro le redazioni. Che pagella ti senti di dare all’attuale comunicazione?
«Proseguendo di questo passo, il giornalista, in Ticino, rischia di diventare colui che tappa i buchi rimasti per mancanza di pubblicità. È logico che per questo compito gli editori non reclutino dei premi Pulitzer, ma ci si accontenterebbe di non leggere strafalcioni ed errori grammaticali grossolani. Non va meglio ai vignettisti che – quando sono pubblicati – come i giornalisti freelance vengono retribuiti un tanto al chilo».

Verso dove sta andando la carovana mass-mediatica ticinese?
«Si può ancora chiamare carovana un convoglio composto da un mega-carrozzone statale (che va per conto suo) e da due carrozzoni privati con qualche carrettino a rimorchio, che hanno monopolizzato la comunicazione nella Svizzera italiana? Di sicuro la ricchezza delle opinioni e il contraddittorio non rientrano nelle priorità degli editori ticinesi. D’altra parte il pubblico dei lettori sembra ignorare l’impoverimento del panorama editoriale causato dalla chiusura del GdP (unica voce cattolica) e, ultimamente, del settimanale Il Caffè».
 
Dopo aver preso di mira e spesso dileggiato i politici, a un certo punto hai deciso di metterti tu stesso in politica. Tre legislature in Gran consiglio per il Ppd. Il bilancio?
«Decisamente ho avuto più soddisfazioni come vignettista che come deputato. Sono troppo poco diplomatico, abituato a dire pane al pane e vino al vino, senza pensare troppo alle conseguenze».

Che idea ti sei fatto della politica vista dall’interno?
«A mio avviso la politica assorbe troppe energie in formalità (ad esempio la redazione dei rapporti commissionali), sottraendo tempo ed energie al confronto delle idee e alla creatività. Tutto procede entro schemi preordinati e l’azione è spesso dominata dai pregiudizi partitici. Non è vero che tutti i politici sono uguali, ma le dinamiche interne ai partiti sono molto simili. Le differenze ideologiche nei gruppi di centro sono mere sfumature; ad interporsi sono soprattutto gli interessi, personali e di categoria».

Risultati ottenuti che ritiene significativi?
«Nell’ambito dell’handicap, in Gran consiglio fui il primo firmatario di un’iniziativa elaborata per la modifica dell’articolo 30 cpv. 1 della Legge edilizia per obbligare il Cantone a rendere accessibili ai disabili gli stabili pubblici. Venne sottoscritta da 89 deputati su 90 e passò come una lettera alla posta. Ricoprii la mia carica per tre legislature nelle Commissioni delle petizioni, scolastica, sanitaria e di sorveglianza per le condizioni di detenzione, che presiedetti due volte. Un po’ a margine dell’attività politica, ma su chiamata del consigliere di Stato Luigi Pedrazzini, entrai nel comitato dell’Associazione L’Orto, attiva in ambito sociale, che poi mi impegnò con la carica di presidente per un decennio. Tuttora sono presidente del Gruppo di accompagnamento per il volontariato sociale di nomina governativa».

Quali sono i problemi più urgenti da affrontare e risolvere, gli ostacoli che permangono, nonostante gli innegabili miglioramenti fatti?
«Lo Stato fa tanto per i disabili, occorre mantenere questa attenzione nonostante le altre problematiche. L’inclusione delle persone con handicap (una volta detta integrazione) richiede uno sforzo collettivo di valorizzazione della diversità. È un ideale, non solo un concetto pratico. Ed è una conquista fragile da rinnovare giornalmente.
Purtroppo anche l’inclusione non è esente dalle strumentalizzazioni di chi predilige il politicamente corretto fregandosene delle persone».

 

Armando Boneff è nato nel 1953; sposato con Laura è padre di un figlio e nonno di due nipoti. È titolare di uno studio grafico a Lugano. Impegno politico (in seno al Ppd): deputato in Gran consiglio dal 2003 al 2015 e consigliere comunale a Lugano dal 2016 al 2019. Libri di cui è autore: «Bonefferie» (1993), «Scacciapensieri» (1995) e «30 anni di Bonefferie» (2017).