Da Bolsena a Roma sono poco più di 150 chilometri. 165,9, precisa Vincenzo, perché lui, coi numeri, è preciso. Io, invece, li guardo da lontano. Ma quando si cammina davvero, le distanze smettono di essere cifre. Diventano ritmo, fiato, respiro, vesciche, persone. È come se la strada riscrivesse un nuovo concetto di misura, di distanza.
A metà aprile abbiamo percorso un tratto della Via Francigena, da Bolsena a Roma. Insieme. Vincenzo, utente della Casa Don Orione, e io, Davide, che lo accompagno anche nella quotidianità. Con noi c’erano Antonio (mio padre), Nicoletta, vegliatrice, Claudia, curatrice di Vincenzo, e Loredana, sorella di Claudia. Un gruppo improbabile solo all’apparenza, in realtà, perfetto per affrontare fatica, lentezza e silenzi, senza fretta, senza maschere, senza pretese. Ogni mattina partivamo presto. Lo zaino sulle spalle, il corpo ancora indeciso, la testa piena di sonno. Le prime ore erano sempre una trattativa con le gambe e con il fiato: «Ce la faremo oggi?». «Ci saranno salite?». «Sarà dura?». Poi, quasi senza accorgercene, smettevamo di discutere con noi stessi e iniziavamo semplicemente a camminare. E il passo diventava la nostra unica misura. È così che si procede nella vita, crediamo. Un passo, poi un altro. Senza sapere bene quanto manca ma sapendo che ogni metro conta.
Con Vincenzo abbiamo imparato la grammatica del passo lento. Il suo fermarsi, guardare, respirare, contemplare i prati fioriti (che poi lui ha anche dipinto su tela) ci ha insegnato che il traguardo non è mai un punto sull’asfalto. È un fragile equilibrio tra fatica e presenza. Tra sforzo e compagnia. Ci ha fatto capire che, a volte, arrivare non è «arrivare prima», ma arrivare bene.
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