Bagài da paés

di Roberto Bottinelli

«Tira sü quel mócc, védat miga che ta gh’è gió la campana?» E il ragazzino incriminato doveva guardare in viso l’adulto con l’espressione di chi capisce e accetta il rimprovero, altrimenti, in tempi in cui gli assistenti sociali non erano ancora stati «inventati», sarebbe arrivato uno «slavadenc», un manrovescio solitamente doloroso e ben assestato.

Indossava la canottiera più o meno bianca e sulla spalla era ben visibile il taglietto della vaccinazione contro il vaiolo che – paura o non paura – veniva operata su tutti i ragazzi, così come era obbligatoria per gli allievi la visita annuale dal dentista scolastico. Quella sì che impressionava. Nella sala d’aspetto, tutti seduti per terra perché le sedie non abbondavano, il ronzìo minaccioso di quei vecchi trapani a pedale, lentissimi e dolorosi, inducevano i meno coraggiosi al pianto e anche i più spavaldi non riuscivano a mascherare un certo tremolìo delle gambe.
 
L’abbigliamento e i capelli
La tenuta estiva «standard» dei ragazzi dell’epoca contemplava la canottiera e il pantalone corto di colore blu o nero, con il taschino dietro che serviva per tenerci le caramelle appena un po’ succhiate e il fazzoletto, quando la pezzuola di stoffa (quelli di carta non si sapeva nemmeno cosa fossero) non era stata smarrita nel corso di qualche gioco. 

Solitamente il fazzoletto costituiva il regalo natalizio della nonna che lo offriva ben ripiegato in una scatolina di bachelite con il dorso trasparente. Negli anni più prosperi la scatolina poteva essere accompagnata da un regalo gradito: un cinque franchi di carta. I fazzoletti più preziosi esibivano sui bordi le iniziali ricamate e il loro uso era riservato per le grandi occasioni, come la messa o la cresima. Gli altri (più «andanti», come si diceva) a quadrettoni multicolori, avrebbero dovuto servire quotidianamente ma avevano la brutta abitudine di scivolar fuori rapidamente dal taschino posteriore, spesso scucito. Di lì il frequente «mócc» dei ragazzi, mentre un insulto molto usato anche tra gli adulti era quello, poco signorile, di «narigiàtt».

Le teste dei ragazzi esibivano un taglio «standard» di capelli: non usava più la scodella per allineare i bordi della frangia ma le chiome erano troncate cortissime (per risparmiare sul numero dei tagli operati in casa ed evitare di alloggiare le «bestioline saltellanti», abituali abitatrici della testa dei meno cògniti di igiene personale). Tra gli adulti si parlava del ragazzo utilizzando una parola latina vecchia di secoli, quel «tonsus», (il tosato) che in dialetto diventava «ul tus».
 
In campo per la partita
Le gambe dei giovani erano una sinfonia di macchie blu e croste, testimoni di scontri, incidenti e pedate ricevute tentando di dribblare gli avversari durante le partite di calcio. I «match» come usava dire scimiottando l’inglese (la Terra di Albione era la patria d’origine del «foball») erano disputati «a un gol sol» (con una porta sola) in campetti sconnessi o nella piazza del villaggio dove sulla strada che portava verso i campi, le vetture di passaggio erano una rarità.

Transitava al massimo qualche trattore o il conducente di una Vespa o di una Zehnder che non di rado si fermava per rimettere «in campo» personalmente la palla. Anche qualche adulto di passaggio interveniva nel gioco, intendendo dimostrare «urbi et orbi» (rischiando caviglie e pantaloni lunghi) la sua abilità nello «scartare» l’avversario o nel palleggio. «Ul balón» presentava un rigonfiamento anomalo, una specie di bugno nella parte che nascondeva, con una stringa di pelle, la valvola per gonfiare la camera d’aria. Una volta aperta la stringa per gonfiare l’interno, non c’era più verso di rimettere a posto il tutto e ripristinare così la corretta sfericità del pallone.

La partita poteva concludersi a causa dell’oscurità o quando un contadino, di ritorno dai prati, piazzava il carro carico di fieno «magéngh o redesìv» nel bel mezzo della piazza. Il carro era ingombrante e immobilizzato dalle catene che trattenevano il carico. Recava anche, infilati nelle catene, i forconi impiegati per caricarlo (i «furchìn»: tutti coloro che collaboravano alla fienagione avevano il loro attrezzo personale). Dato che con certi personaggi non c’era verso di discutere: «mi gh’u miga temp da perd cun i vos ball», urlava il contadino contrariato, il diverbio veniva troncato sul nascere e la partita si concludeva. Inutile insistere, pena il sequestro della sfera «bugnata».
 

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sull'edizione del 12.11.2021

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