Ciao Gibigibò. Sono convinto che molte persone si stanno chiedendo perché ti ho chiamato così. Quando Adriana Parola – la mamma del Gatto Arturo, della Bottega del Signor Pietro quindi del Cane Peo, il cane blu più celebre della Televisione della Svizzera italiana – lo chiamò a far parte del team, Claudio Moneta (doppiatore italiano di grande valore e duttilità) disse al Gibi: «Come ti chiami?»; e lui di rimando: «Gilberto, detto Gibi». «Non è vero, ti chiami Gibigibò!». E così fu. Da quel momento fu per tutti noi e per il pubblico dei bambini, Gibigibò.
Non aveva studiato teatro e recitazione, era tutto istinto e genuinità. Si fece notare in una commedia dialettale nella compagnia della sua Bioggio. Era il macellaio del paese e a detta degli abitanti, non solo delle terre malcantonesi, il più bravo di tutti. Per le massaie aveva sempre una battuta simpatica, una barzelletta, un fatto di cronaca interpretato a modo suo. Poi qualcuno lo portò prima in radio e fu felice di essere uno dei co-presentatori del Cane Peo. Un cane blu strampalato, ma che ancora piace tanto. Nel frattempo la commedia dialettale l’aveva preso sotto la sua protezione, e lui studiava con tenacia le sue parti; era sempre il primo a conoscere il suo testo a memoria, e non sbagliava mai. Gli archivi della Rsi sono ricchi di tante sue partecipazioni sia in Radio sia in Tv.
Un giorno l’attore e doppiatore Claudio Moneta gli suggerì di partecipare al concorso che il Teatro alla Scala di Milano aveva bandito per l’interpretazione di Ambrogio, il servo balordo di Don Bartolo, nel Barbiere di Siviglia di Rossini. C’era una ventina di concorrenti, tutti allievi dei maggiori teatri italiani. Si presentarono con i loro curricola teatrali e Gibi: «Io sono un macellaio, faccio l’attore per passione». Da non credere, ma venne scelto proprio il nostro Fusi. Gli altri concorrenti gli chiesero che scuola avesse frequentato e lui, candidamente, rispose nel nostro dialetto: «Ma mi u fai la scöla da macelar!». Francesco Rapaccioni, critico d’arte specializzato in opere liriche scrisse: «Gilberto Fusi, un rimbambito e divertente Ambrogio, nel finale commosso fino alle lacrime».
Nella trasmissione con Peo, interpretava se stesso, un amico che aveva la macelleria vicino alla casa del cane blu e si presentava sempre con il suo grembiule bianco, ogni tanto regalando a Peo un bell’osso per la sua collezione; ci divertivamo sempre noi che lavoravamo in regia e nello studio.
Poi un giorno Renato Agostinetti mi telefonò chiedendomi se volevo prendere in mano la regia del suo Cabaret della Svizzera Italiana. Senza pensarci risposi di sì, andando col pensiero alle mie prime regie televisive con il gruppo cabarettistico dei Gufi. Ho saputo in seguito che era stato il Gibi a fare il mio nome e di questo ti ringrazio, caro Gibi! Che bello, anch’io tornavo al teatro. Avrei dovuto fare un solo anno, l’anno di gloria di Renato, poi avrebbe smesso. Il successo fu tale che un mese dopo la fine della tournée mi disse: «E se ne facessimo ancora una?». La seconda andò meglio della prima e anche la terza. Poi il meraviglioso giocattolo, che aveva fatto ridere e divertire tutto il Ticino, come tutti i giocattoli, si ruppe. Renato era esausto e, in fondo anche gli attori. La compagnia si sciolse ma non i ricordi che rimangono ancora vivi in tutti noi e in tutti i ticinesi.
Grazie Gibigibò. Continua a recitare ovunque tu sia, che sei sempre stato proprio bravo.