#Antichi ricordi | 30/09/2016

Cosa si mangiava negli anni Cinquanta e Sessanta

Prendo ad esempio Miglieglia, dove per 250 abitanti c'erano quattro piccoli negozi che vendevano derrate alimentari di consumo quotidiano, un panettiere che serviva parecchi villaggi e tre osterie. Il camion della Migros passava una volta la settimana, così come il fruttivendolo. D'estate veniva saltuariamente in paese il pescivendolo. Per l'alto Malcantone c'era un solo macellaio, a Novaggio, che durante la settimana raccoglieva le comande e il sabato faceva le consegne della carne destinata al pranzo domenicale. Quasi tutte le famiglie avevano orto e campi, dove si coltivavano il granoturco, le patate, la segale... Le mucche e le capre davano latte a sufficienza per la popolazione, burro e formaggini. Galline e conigli rappresentavano un contributo alimentare importante. Cibi con conservanti a lunga durata non esistevano, quasi nessuno possedeva infatti il frigo o il congelatore. Di regola, per colazione c'erano caffelatte, pane, burro e marmellata. A mezzogiorno e sera, minestrone, pasta o riso in tutte le varianti. Venerdì di magro e digiuno: tonno (venduto sciolto nelle botteghine), raramente pesce fresco; d'inverno il merluzzo. I prodotti dell'orto la facevano da padroni: durante la stagione estiva fagiolini, pomodori e insalate erano il complemento quotidiano del pranzo povero. Il minestrone o la minestra di zucca venivano cucinati in quantità industriali: si mangiavano per dieci giorni di seguito. E l'effetto dirompente sull'intestino colorava per le urgenze i campi e i prati... Durante i mesi di ottobre, novembre e dicembre la cena sovente consisteva in castagne bollite e latte (magari con panna). Mia mamma aveva fatto credere a mia sorella quattordicenne che era una dieta dimagrante… E difatti mia sorella non è ingrassata! Un discorso a parte merita la polenta. Mio padre diceva: «Ungiorno polenta e latte e il giorno dopo, per cambiare, latte e polenta». Accompagnava praticamente tutto: carne, formaggio, uova. Una leccornia con formaggio grattugiato e burro fuso. La cottura era regolata da ferree leggi: minimo un'ora sul fuoco, sempre rimestando, solo acqua e sale, pochissimo latte o burro a fine cottura.

Anche la mazza casalinga del maiale era d'uso: salami, luganighe, mortadelle integravano magnificamente la monotonia dei menu, grazie a una conservazione in cantine fresche e arieggiate. Ora nelle mense scolastiche c'è il nutrizionista che calcola le calorie e la varietà dei pasti. Il menu per gli allievi dei paesi negli anni '50 si componeva per tre giorni di minestrone e un giorno di pasta con salsa di pomodoro concentrata. Poi si comprava alla bottega una fetta di pane e un cioccolatino per 25 centesimi. La frutta fresca era assicurata da giugno (ciliegie) a novembre (cachi e mele tardive). Gli alberi da frutto erano di tutti, bastava non calpestare l'erba! I contadini facevano finta di sgridarci, ma sapevano che noi compivamo il rito del «rubare le ciliegie» che loro stessi avevano praticato in gioventù. Le mele venivano conservate su reticoli con la paglia e si mantenevano fino a primavera. Con l'uva si faceva un vino nostrano il cui gusto aspro non dava fastidio ai coltivatori. Dopo aver fatto vino e grappa, su quello che restava si versava dell'acqua e un po' di zucchero: ne risultava una bevanda rosa chiaro, che chiamavano «nostranello », ma di uva non sapeva proprio! Una bevanda estiva casalinga era costituita da acqua, zucchero, limone e foglie di salvia, il tutto macerato al sole per alcuni giorni: fermentava e si formavano le bollicine. Gustosissima! Con le noci si faceva l'olio (adoperato anche quale crema abbronzante dalle nostre mamme) e si potevano mangiare in quantità ridotte. Si usava dire: «Pan e nöss mangiaa da spuss, nöss e pan mangiaa da can», nel senso di mangiare molto pane e poche noci. Altra raccomandazione dei nonni al proposito: «Nin (bambino), mangia mia tropp nöss se no ta vegn ur lumin ar cüu». In effetti l'olio di noci serviva anche da combustibile per le lampade. Non va dimenticato ciò che si trovava in natura: mirtilli, fragoline di bosco, funghi e il formentino, che cresceva spontaneo nei campi. Per non parlare della selvaggina, cacciata non sempre secondo le regole della convivenza tra specie, e la pesca nei fiumi.

Lauro Degiorgi