#Via da Casa | 12/12/2021

Nella favela Brasiliana ho trovato la pace

Da Taverne a Belo Horizonte. Raggiungiamo Maria Paola Caiata in Brasile, dove da un paio d’anni si occupa di bambini, adolescenti e famiglie in difficoltà per conto di un’organizzazione non governativa locale.

di Roberto Guidi

Dalle sue parole emerge serenità, e considerando il passato è una conquista. In effetti, quando le chiediamo una biografia essenziale, risponde: «Ho 24 anni, sono nata e cresciuta a Lugano e vengo da una storia familiare piuttosto dolorosa e impegnativa, ma che con il tempo ho imparato ad accettare e anche apprezzare». Del periodo dell’infanzia e dell’adolescenza le piace ricordare la passione per il calcio e le belle amicizie costruite.

Il pallone: nelle scorse settimane su queste colonne abbiamo raccontato – in relazione a una mostra a Villa Negroni a Vezia – la storia dell’Armonia femminile, compagine poi integrata nel Rapid e ora nel Lugano. Maria Paola ha contribuito a scriverne un pezzo: «Ho giocato a lungo come portiere con le ragazze del Rapid. Me la cavavo piuttosto bene, tanto che sono stata chiamata nella Selezione Ticino e nella Nazionale svizzera».

 

Va dove ti porta il cuore

Quando si è trattato di scegliere la strada da prendere per costruirsi un futuro solido, il desiderio di aiutare il prossimo ha prevalso. «Avrei potuto frequentare la scuola per sportivi a Macolin, ma ho preferito focalizzarmi sulla formazione sociale e giocare nelle leghe minori». Il calcio è stata un’esperienza meravigliosa durata 15 anni. «Tanti ricordi: un rigore parato, costatomi però una zuccata contro il palo e un piccolo svenimento; i pisolini del mercoledì pomeriggio nell’auto di mio nonno, che mi portava agli allenamenti; le trasferte oltre Gottardo tra cantate e ripassi per gli “espe” della settimana...».

Concluso il liceo, emerge l’esigenza di trasferirsi in Brasile. «Dopo un anno al servizio di una ong locale, ero rigenerata e pronta per i corsi di lavoro sociale all’Università professionale di Losanna». Con fatica ha concluso gli studi, «nonostante il parere di un medico che, dopo una diagnosi di difficoltà di apprendimento, mi aveva sconsigliato di iniziare l’uni».

Fresca di diploma, si è lanciata con entusiasmo in un mondo che l’appassionava sin da bambina. «La miccia è stata accesa da fatto che avevo condiviso con alcuni coetanei originari del Brasile. Pur avendo una famiglia, mi sentivo spesso sola e immaginavo come potesse soffrire chi la famiglia non l’aveva».

 

Ridare speranza

Da un paio d’anni, Maria Paola Caiata risiede a Belo Horizonte e lavora per un’ong che accoglie bambini, adolescenti e famiglie in difficoltà. «Coordino un’equipe di dieci persone, il cui obiettivo è offrire ai giovani un ambiente sicuro e sano dove incontrarsi, giocare, parlare, mangiare e divertirsi, alla presenza di adulti che possano motivarli a credere in sé stessi e nella vita».

Aiuta persone a cui la favela ha tolto desideri, sogni e prospettive. «Offriamo alternative all’ozio che, a lungo andare, distrugge; li aiutiamo a entrare nel mercato del lavoro o in programmi di apprendistato. Per quanto possibile, seguiamo anche le famiglie, affinché riscoprano il loro ruolo educativo. In parallelo, ci occupiamo del programma di sostegno a distanza e delle relazioni tra i bimbi/ragazzi e i loro padrini/sostenitori stranieri, i quali spesso non si limitano al sostegno economico, desiderano avviare un vero dialogo». Un lavoro impegnativo e gratificante. «Con i giovani si ottengono risultati immediati; hanno bisogno di compagnia, di qualcuno che creda in loro».

A proposito di ostacoli e delusioni che intralciano la sua attività, Maria Paola ci sorprende: non sono l’atteggiamento dei ragazzi, l’ambiente ostile della favela o la mancanza di risorse, bensì la fragilità delle ong. «Ognuna deve rispondere ai propri finanziatori, rendere conto del proprio operato, rispettare le regole locali e sperare nelle entrate, pubbliche e private, da cui dipende la sua sopravvivenza.
Fa parte delle regole del gioco di chi opera al fronte, tuttavia condiziona in nostro lavoro, nel senso che pur di esibire risultati immediati vengono sacrificati progetti che richiederebbero più tempo e pazienza».

 

Pregiudizi difficili da estirpare

Immersa nella realtà verdeoro, si occupa anche dell’accoglienza dei volontari e dei contatti con i finanziatori. Emerge qualche prurito: «Diversi stranieri si considerano superiori a questa popolazione, spesso ingiustamente ritenuta “ignorante” e “sottosviluppata”. Una parte del mio lavoro prevede un contatto constante con l’Europa e questi pregiudizi sono molto ricorrenti e stancanti».

La realtà della ragazza di Taverne distrugge alcuni cliché. «La favela in cui mi trovo è stata in parte urbanizzata e la gente, per sano orgoglio, non la ritiene più tale. Ho una casa grande e mi sposto in moto per evitare i trasporti pubblici senza orario e sovraffollati. Certo, mi sono abituata al piatto quotidiano di riso e fagioli, a non avere la macchina da lavare e le finestre coi vetri, però è stata una mia scelta. La vita diventa dura quando non hai alternative».

 

In Brasile con un biglietto di sola andata

Il suo quotidiano rima con barcamenarsi, superare ostacoli, trovare soluzioni, fare buon viso a cattiva sorte. «Eppure qui ho trovato pace e serenità». Non ha perso il sorriso neppure di fronte agli imprevisti, che sono all’ordine del giorno. «Qualche settimana fa ho dovuto chiedere ospitalità ad amici perché mi avevano tolto l’acqua. Vivo da 11 mesi in questa casa, pago regolarmente le bollette, ma il precedente inquilino ha lasciato debiti e il proprietario si è indispettito. Altri esempi sono i bar caotici, le chiese evangeliche improvvisate nei garage, i compleanni chiassosi: nessuno si preoccupa di rispettare la quiete. Tempo fa, il papà di uno dei bambini di cui ci occupiamo ha osato protestare per una festa rumorosa. Gli hanno sparato ed è morto in strada».

Le persone del posto affascinano per la loro apertura, la cultura allegra e spensierata, la capacità di rimettere le preoccupazioni del quotidiano nelle mani di Dio. Un cliché? «In parte. Ai calorosi abbracci e alla capacità di accoglienza si accompagnano individualismo e opportunismo. Non è facile vivere in questa giungla senza regole, è logorante». E allora ecco fare capolino un po’ di sana saudade per la sua terra. «Del Ticino mi mancano il rispetto delle norme, la puntualità dei bus, le strade pulite, il profumo dei fiori a primavera, il silenzio. A differenza del Ticino, e della Svizzera in generale, qui non si progetta sul lungo termine, non si costruisce il domani, risparmiando per la pensione, per far studiare i figli. Si tira a campare». Beh, hai sole, spiagge e oceano tutto l’anno... Maria Paola sorride. «Il Brasile è enorme, è più facile raggiungere il mare dalla Svizzera che non da Belo Horizonte. Ma non mi lamento, qui si improvvisano viaggi all’ultimo e spesso mi concedo un fine settimana all’avventura con gli amici del posto. Capita di viaggiare 18 ore in auto (tra andata e ritorno) per trascorrerne 12 in spiaggia».

Di rito la domanda conclusiva ai protagonisti della rubrica «Via da casa»: dove ti vedi tra dieci anni? Svizzera, Brasile, altrove? «Ho coronato il sogno, coltivato da quando avevo 8 anni, di vivere tra gli ultimi. Nel frattempo è cresciuta la consapevolezza che il destino è imprevedibile e quindi chissà cosa mi riserverà il futuro. La vita non è facile, per nessuno e in nessun luogo. Di sicuro la mia non è monotona e non mi permette di stare tranquilla, il che dà una brezza che mi fa sentire viva. Mi concentro sul presente in Brasile, dove sono arrivata con un biglietto di sola andata».