Vincenzo Cardarelli

 Testo: Andrea Ventola – Illustrazioni: Elena Ventola Turienzo

 «Distesa estate, 
stagione dei densi climi
dei grandi mattini
dell’albe senza rumore –
ci si risveglia come in un acquario –
dei giorni identici, astrali, 
stagione la meno dolente
d’oscuramenti e di crisi,
felicità degli spazi, 
nessuna promessa terrena
può dare pace al mio cuore
quanto la certezza di sole
che dal tuo cielo trabocca,
stagione estrema, che cadi
prostrata in riposi enormi,
dài oro ai più vasti sogni,
stagione che porti la luce
 a distendere il tempo».
 
Le parole uscivano calde dalla bocca di nonno Burt, i baffi bianchi a seppellirne il labbro e un velo di tristezza nella voce rauca di fumo e di sonno. Stavamo in via Canova 15, in pieno Quartiere Maghetti, a pochi metri dall’edificio in cui un tempo, per pochi mesi, aveva vissuto l’autore della poesia recitata da nonno Burt. Il suo nome, mi disse mentre camminavamo verso il lago, era Vincenzo Cardarelli. «Fu uno dei più grandi poeti del Novecento, ebbe una vita travagliata e morì povero e solo, senza grandi onori, seppellito insieme a uno dei suoi amati cappotti, tumulato con riserbo e umiltà, come accade solo ai grandi, che se ne vanno in silenzio, ma dietro di loro lasciano una traccia eterna, un solco profondo e significativo».
 
Mentre camminavamo sotto un sole torrido, che ci faceva sudare senza tregua, nonno Burt accennò qualcosa a proposito della storia difficile che Cardarelli aveva alle spalle. 

«Fu il frutto di un’unione illegittima tra Antonio Romagnoli, gestore di un buffet ferroviario a Corneto Tarquinia, nel Lazio, e Giovanna Caldarelli, un’ortolana che ebbe con il padre del poeta una relazione tumultuosa, conclusasi con la cacciata di quest’ultima e l’abbandono del nido familiare».

L’assenza della madre, proseguì nonno Burt, segnò profondamente la coscienza di Cardarelli, che avrà relazioni complicate e infelici con le donne della sua vita – prima fra tutte la poetessa Sibilla Aleramo – e resterà per sempre legato al desiderio di ritrovare quell’affetto così grande che gli era sempre mancato.
«Cardarelli, il cui nome è quello materno anche se lievemente modificato, ha anche dei problemi fisici: il braccio sinistro è infatti menomato e questo gli procura violente prese in giro da parte dei compagni di scuola. Considera che siamo alla fine dell’Ottocento e parlare di bullismo non ha alcun senso. Il piccolo Vincenzo deve imparare a cavarsela da solo, non può chiedere aiuto al padre o agli insegnanti. E così va a scuola occasionalmente, preferendo studiare da autodidatta, in modo disordinato e compulsivo».
Il ragazzo cresce in solitudine, è timido e introspettivo ma non gli manca il coraggio di osare.
«Nel 1905 muore suo padre e due anni dopo Cardarelli parte per Roma, senza un soldo in tasca né agganci o titoli di studio a facilitargli l’inserimento nella Città Eterna. E infatti vive in condizioni di estrema miseria, adattandosi a svolgere i lavori che gli capitano a tiro. Dapprima in un deposito di orologi, poi nello studio d’un avvocato, come impiegato nella segreteria della Federazione metallurgica, contabile in una cooperativa di scalpellini... Ma è molto più spesso disoccupato, attanagliato dalla fame e dal freddo. Finché, a un dato momento, non si dà al giornalismo».
Da questo momento inizia la sua ascesa nel mondo letterario italiano.
«Studia ferocemente gli scrittori che più lo affascinano: Shakespeare, Tolstoj, Ibsen, Joyce, Proust, Goethe, Péguy, i maledetti francesi come Baudelaire e Rimbaud, e soprattutto Nietzsche e Leopardi, che lo influenzeranno moltissimo».
Nonno Burt mi raccontò come fu proprio l’attività di giornalista a permettergli di conoscere la poetessa Sibilla Aleramo, con cui intreccerà un legame sentimentale profondamente tormentato.

«Era diventato redattore dell’Avanti!, il quotidiano di riferimento del Partito socialista italiano, e durante un’intervista si innamorò della bella Sibilla, anche lei con un vissuto particolarmente sofferto: sua madre era stata infatti ricoverata in manicomio e lei fu costretta a sposare l’uomo che le aveva usato violenza nella fabbrica dove lavorava. Giovanissima, tentò di togliersi la vita, ma fortunatamente non ci riuscì. Da lui ebbe un figlio, ma la sua vita non poteva essere quella di una normale casalinga. La sua energia la portò a lottare per i diritti di tutte le donne, a viaggiare e a scrivere. Sibilla era una donna attiva e mondana, fu indipendente e diede scandalo in numerose occasioni, anche a causa dei numerosi amanti, tra cui il nostro eroe».

Mentre ci avvicinavamo al lago, nonno Burt mi raccontò come alcune delle lettere che Cardarelli scrisse a Sibilla nell’estate del 1914, furono proprio spedite da Lugano.

«Cardarelli doveva recarsi in Germania a seguito di una borsa di studio, ma lo scoppio della Prima guerra mondiale lo obbligò a fermarsi a Lugano, dove rimase cinque mesi. Parecchi anni dopo, nel ’49, un suo testo intitolato “Stagioni sul lago”, comparirà sul Corriere del Ticino. Cardarelli trova a Lugano un’oasi di pace e di tranquillità che riesce a lenire in parte le sue sofferenze. Il poeta arriverà, negli anni, a conoscere bene i paesaggi idilliaci di Como, Lugano, Porlezza, Intra, Cernobbio, Bellagio... In una sua lettera a Sibilla Aleramo ricorda il Ceresio come un luogo incantato, in cui “gli specchi d’acqua sono vitrei e qua e là aggrinziti come la pelle d’un serpente in letargo”. Le nuvole bianche sembrano di stucco, le case che si riflettono sulla superficie lacustre paiono “stampate su raso”, nelle insenature dei monti si stagliano le “ombre bronzee” proiettate dal sole e le strade argentate che “corrono come un brivido sul dorso dei monti si direbbero scavate dalla mano d’un gigante, con un sasso acuminato”».

Tutto, mi disse nonno Burt, del Ceresio e delle sue sponde appariva a Cardarelli come un’isola ingioiellata in cui trovare riposo dal caos del mondo e da quello, ben più profondo, della propria anima.

«Ma alla fine cosa gli successe?» domandai. «Andò a combattere al fronte?».
Ero incuriosito dall’immagine di quell’uomo così sensibile ma anche avventuroso, timido ma coraggioso. Volevo saperne di più.

«No» mi rispose nonno Burt. «Il suo problema al braccio lo salvò. Era inabile alla leva e così continuò a girovagare per l’Italia, scrivendo e vincendo numerosi premi, tra cui uno dei più prestigiosi, lo Strega, nel ’49 con la raccolta di poesie “Villa Tarantola”. E pensare che Cardarelli odiava viaggiare. Diceva che una volta resosi conto di dove fosse, della gente che lo circondava, la noia, il tedio, il male di vivere lo assalivano con ancora più vigore di prima: forse solo qui, su queste sponde, poteva riposare davvero».

In riva al lago nonno Burt chiuse gli occhi e recitò una delle poesie più famose di Cardarelli, dal titolo Gabbiani:
«Non so dove i gabbiani abbiano il nido
ove trovino pace.
Io son come loro
In perpetuo volo.
La vita la sfioro
com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
 balenando in burrasca». 

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sull'edizione del 20.08.2021

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